Politiche di genere

L’Italia è uno dei paesi europei in cui le donne sono meno presenti nel mercato del lavoro: circa il 56%. Lontano non solo dai livelli dei paesi nordici ma anche dalla media europea: 68%. Contemporaneamente, l’Italia è uno dei paesi europei in cui le donne dedicano più tempo al lavoro non retribuito di cura e assistenza familiari. Che fare per ridurre tali divari nel bel paese, partendo innanzitutto da questa Regione? Per esempio, adottare le seguenti misure di politica economica, del lavoro e sociali:

  • riconoscere, ridurre e ridistribuire il lavoro di assistenza e cura non retribuito;
  • incentivare il lavoro retribuito attraverso la promozione del lavoro “dignitoso” per le lavoratrici ed i lavoratori;
  • adottare il tempo pieno in tutte le scuole primarie e medie esistenti nel territorio veneto;
  • garantire i servizi educativi, aprendo ulteriori asili nido pubblici, riducendo le relative rette mensili, nonché stabilendo rette inferiori per la frequenza della scuola materna; lo stesso vale per l’assistenza agli anziani, attraverso la realizzazione di interventi e prestazioni domiciliari, semiresidenziali, residenziali e di prossimità, altrimenti riservati alle cure parentali, cioè in maggioranza alle donne;
  • aumentare i salari per lavoratrici e lavoratori, considerato che essi sono più bassi rispetto alle regioni vicine dell’Alto Adige, Lombardia ed Emilia. Ma non basta, le donne al lavoro guadagnano qualche centinaio di euro in meno dei colleghi uomini. Tale squilibrio su occupazione e salario è correlato allo sbilanciamento nella suddivisione del carico familiare tra donne e uomini. Spesso non è conveniente per le mamme lavorare perchè  il costo dei servizi sostitutivi per la cura dei bambini e per il lavoro domestico è elevato;
  • incentivare, tramite la scuola ed i mass media, una maggiore condivisione del carico familiare fra i genitori che richiede anche, se non soprattutto, un cambiamento culturale. In questo senso poco aiuta la previsione dell’art. 37 della Costituzione che precisa: “Le condizioni di lavoro (della donna) devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. Essa è frutto dei tempi in cui fu elaborata, tempi che riservavano alla donna la cura esclusiva della famiglia, compresi figli, coniuge e spesso genitori. Oggi, avrebbe bisogno di una riscrittura, sostituendo al termine donna quello di genitore, femmina o maschio che sia;
  • ridurre l’orario di lavoro a parità di salario, fatto che porterebbe alla creazione di nuovi posti di lavoro, indispensabili per accrescere l’occupazione, soprattutto quella femminile, e diffusione di una organizzazione flessibile delle attività, sia quelle dei servizi, sia quelle della manifattura, che permetta la conciliazione e la condivisione dei tempi di vita e di lavoro per donne e uomini;
  • migliorare e/o ripristinare i Consultori familiari, istituiti nel 1975, quale efficiente modello di gestione sociale della salute caratterizzato da una costante attenzione alle differenze di genere e da un approccio multidisciplinare ai problemi. Infatti, la relativa legge prevede la collaborazione tra varie figure professionali: ginecologi, psicologi, assistenti sociali, ostetrici, infermieri. Essi possono costituire un elemento essenziale della sanità regionale pubblica che è da rifondare pienamente; come ha dimostrato l’epidemia del corona virus;
  • intensificare la lotta contro la violenza di genere e contro le molestie sessuali. Ogni anno, migliaia di donne si rivolgono ai centri antiviolenza presenti nel Veneto per segnalare maltrattamenti ed angherie, ma solo una donna su quattro denuncia la situazione alle forze dell’ordine. La rete dei centri in questione e delle concomitanti case rifugio dovrebbe poter contare sempre di più sulla relativa regia da parte dell’istituzione regionale e su maggiori finanziamenti pubblici da parte di quest’ultima, insieme allo stato ed ai comuni;
  • applicare seriamente la legge 194 del 1978, voluta sia per abbattere il ricorso all’aborto clandestino sia per contrastare il ricorso all’aborto come forma di controllo delle nascite. Ad oggi nella regione veneta si riscontrano sempre maggiori difficoltà per le donne al pieno riconoscimento del diritto sancito da tale legge per l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG), soprattutto per l’elevato numero di medici obiettori di coscienza. La Regione e le correlate aziende sanitarie, secondo la norma citata, hanno l’obbligo di garantire l’accesso diretto della donna in ciascun presidio ostetrico-ginecologico, di assicurare la presenza di personale e dirigenti medici non obiettori, evitando alle donne di girovagare da una struttura all’altra, magari anche fuori regione, di attivare una rete tecnologica e relazionale tra le strutture ospedaliere e quelle territoriali per poter applicare correttamente la L.194 e prevenire le recidive, infine di prevedere l’inserimento della figura del mediatore/trice culturale per favorire il rapporto con le donne straniere;
  • inserimento dell’educazione sessuale e di  genere nelle scuole del Veneto, a partire dalla scuola media o anche dagli ultimi due anni di quella primaria, per quanto non prevista dai programmi scolastici ministeriali, magari sotto forma di progetti. Gli obiettivi che si vorrebbero raggiungere sono i seguenti: contrasto alle discriminazioni di sesso e di genere, conoscenza della sessualità per una pratica responsabile, consapevolezza della contraccezione per non abortire ma rispetto dell’autodeterminazione della donna rendendo accessibile l’aborto per non morire.
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